Il 27 settembre il New York Times ha pubblicato un interessantissimo reportage sul rapporto tra lavoro nero, sfruttamento di lavoro domiciliare e marchi del lusso Made in Italy. Lo abbiamo tradotto per voi e ve lo proponiamo: è lunghetto, ma vale la pena leggerlo tutto! Qui l’originale.
PROVINCIA DI BARI , Italia – L’estate scorsa, in un appartamento al secondo piano nella città di Santeramo in Colle, nel Sud Italia, una donna di mezza età lavorava seduta al tavolo della sua cucina. Ha appena finito di cucire con cura un sofisticato cappotto di lana che verrà venduto da 800 a 2.000 euro ($ 935 a $ 2.340) quando arriverà nei negozi questo mese come parte della collezione autunno-inverno di MaxMara , il marchio di moda di lusso italiano.
Ma la donna, che ha chiesto di non essere nominata per paura di perdere il proprio mezzo di sostentamento, dalla fabbrica che la impiega riceve solo 1€ per ogni metro di tessuto che completa.
“Mi ci vuole circa un’ora per cucire un metro, quindi circa quattro o cinque ore per completare un intero cappotto”, ha detto la donna, che lavora senza contratto né assicurazione e viene pagata in contanti su base mensile. “Cerco di fare due cappotti al giorno.”
Il lavoro nero che svolge a casa le è affidato da una fabbrica locale che produce anche capispalla per alcuni dei nomi più noti nel settore del lusso, tra cui Louis Vuitton e Fendi. Il massimo che abbia mai guadagnato, ci ha detto, è stato 24 € per un cappotto intero.
Il lavoro a domicilio – lavorare da casa o in un piccolo laboratorio anziché in una fabbrica – è una pietra miliare della catena di fornitura di fast-fashion . È particolarmente diffuso in paesi come l’India, il Bangladesh, il Vietnam e la Cina, dove milioni di operai a basso reddito, prevalentemente donne, sono tra i più indifesi del settore, a causa del loro status di lavoratori irregolari, per l’isolamento e la mancanza di tutela legale.
Che condizioni analoghe esistano in Italia, tuttavia, e riguardino la produzione di capi di abbigliamento di lusso, potrebbe scioccare coloro che vedono il marchio “Made in Italy” come sinonimo di sofisticata artigianalità.
La pressione della globalizzazione e la crescente concorrenza, a tutti i livelli del mercato, mettono in pericolo l’assunto implicito nei capi di marchi di lusso, cioè che una parte importante del loro valore è costituita dal lavoro di alta artigianalità, estremamente qualificato e adeguatamente retribuito.
Anche se non sono esposti a ciò che la maggior parte delle persone considererebbe condizioni di sfruttamento della manodopera, ai lavoratori a domicilio, in realtà, viene assegnato un salario simile a quello che ricevono i lavoratori in condizioni di sfruttamento. L’Italia non ha un salario minimo nazionale, ma circa 5-7 euro all’ora è considerato uno standard appropriato da molti sindacati e società di consulenza. In casi estremamente rari, un lavoratore altamente qualificato può guadagnare fino a 8-10 € l’ora. Ma chi lavora da casa guadagna molto meno, indipendentemente dal fatto che si tratti di pelletteria, ricamo o altri ambiti di artigianato.
Maria Colamita, 53 anni, abita a Ginosa, un’altra città in Puglia e ci ha detto che dieci anni fa, quando i suoi due figli erano più giovani, aveva lavorato da casa per fabbriche locali, ricamando abiti da sposa, con perle e appliques, per € 1,50 a € 2 all’ora.
Per completare ogni abito servivano alla signora Colamita dalle 10 alle 50 ore: lavorava da 16 a 18 ore al giorno ma veniva pagata solo quando un indumento era completo.
“Volevo avere la possibilità di prendermi cura dei miei figli e dei miei familiari “, ha detto, aggiungendo che attualmente lavora come addetta alle pulizie e guadagna € 7 l’ora. “Ora i miei figli sono cresciuti, posso accettare un lavoro con un salario normale”.
Entrambe le donne hanno detto di aver conosciuto almeno altre 15 cucitrici nella loro zona che hanno prodotto, per le fabbriche locali, capi di abbigliamento di lusso dalle loro case. Tutte loro vivono in Puglia, il tacco rurale dello stivale italiano, che combina villaggi di pescatori imbiancati a calce e acque cristalline amate dai turisti con uno dei più grandi centri di produzione del paese.
Poche lavoratrici erano disposte a rischiare il loro sostentamento per raccontare le loro storie: la flessibilità e l’opportunità di prendersi cura delle proprie famiglie mentre lavoravano valeva la misera paga e la mancanza di protezioni.
“So di non essere pagata quello che merito, ma qui in Puglia i salari sono molto bassi e alla fine mi piace quello che faccio”, ha detto un’altra cucitrice, dal laboratorio nel suo appartamento. “L’ho fatto per tutta la vita e non potevo fare nient’altro.”
‘Made in Italy’, ma a quale costo?
Costruito sulla miriade di piccole e medie imprese manifatturiere orientate all’esportazione che costituiscono la spina dorsale della quarta economia europea, i pilastri del leggendario “Made in Italy” sono stati scossi, negli ultimi anni, dal peso della burocrazia, dall’aumento dei costi e della disoccupazione.
Le imprese del nord, dove generalmente ci sono più opportunità di lavoro e salari più alti, hanno sofferto meno di quelle del sud, che sono state duramente colpite dal boom della manodopera straniera a basso costo che ha indotto molte aziende a spostare all’estero le attività produttive.
Pochi settori dipendono dal cachet di produzione del paese come il commercio di lusso, fulcro della crescita economica dell’Italia. È responsabile del 5% del prodotto interno lordo italiano e circa 500.000 persone sono state impiegate direttamente e indirettamente dal settore dei beni di lusso in Italia nel 2017, secondo i dati di una relazione dell’Università della Bocconi e di Altagamma, una società italiana che supporta i brand del lusso.
Questi numeri sono stati rafforzati dalle rosee fortune del mercato globale del lusso, secondo le stime di Bain & Company, per una crescita dal 6 all’8%, da 276 a 281 miliardi di euro nel 2018, sospinti in parte dall’appetito del “Made in Italy” dei mercati consolidati e di quelli emergenti.
Ma i presunti sforzi compiuti da alcuni marchi di lusso e dai principali fornitori per abbassare i costi senza compromettere la qualità hanno messo a dura prova coloro che operano nei meandri più profondi del settore. Secondo i dati dell’Istat (Istituto Nazionale di Statistica), nel 2015 i lavoratori senza contratto in Italia sono 3,7 milioni in tutti i settori. Più recentemente, nel 2017, l’Istat ha contato 7.216 lavoratori a domicilio, 3.647 nel settore manifatturiero, tutti con contratti regolari .
Tuttavia, non ci sono dati ufficiali su coloro che operano SENZA contratti regolari. Nel 1973, l’economista Sebastiano Brusco stimò che l’Italia aveva un milione di lavoratori a domicilio sotto contratto nella produzione di abbigliamento e altrettanti senza contratto. Pochi sforzi sono stati fatti per esaminare i numeri da allora.
Questa indagine del New York Times ha raccolto testimonianze da circa 60 donne nella sola regione Puglia che lavorano da casa senza un regolare contratto nel settore dell’abbigliamento. Tania Toffanin, l’autrice di “Fabbriche Invisibili”, un libro sulla storia del lavoro a domicilio in Italia, ha stimato che attualmente ci sono dai 2000 ai 4000 lavoratori domestici irregolari nella produzione di abbigliamento.
“Più in profondità andiamo nella catena produttiva, maggiore è l’abuso”, ha detto Deborah Lucchetti, di Abiti Puliti, il braccio italiano della Clean Clothes Campaign. Secondo Lucchetti, la struttura frammentata del settore manifatturiero globale, composta da migliaia di piccole e medie imprese, spesso a conduzione familiare, è la ragione chiave per cui il lavoro domestico non regolamentato può rimanere prevalente anche in una nazione di primo mondo come l’Italia.
Molti dirigenti delle fabbriche pugliesi sottolineavano che aderivano ai regolamenti sindacali, trattavano i lavoratori in modo equo e pagavano loro un salario di sussistenza. Molti proprietari di fabbriche hanno aggiunto che quasi tutti i nomi di lusso – come Gucci, di proprietà di Kering, per esempio, o Louis Vuitton, di proprietà di LVMH Moët Hennessy Louis Vuitton – inviavano regolarmente personale per verificare le condizioni di lavoro e gli standard di qualità.
Quando contattato, LVMH ha rifiutato di commentare questa storia. Un portavoce di MaxMara ha inviato una e-mail con la seguente dichiarazione: “MaxMara considera una catena di approvvigionamento etica una componente chiave dei valori fondamentali della società che si riflette nelle nostre pratiche commerciali”.
Ha aggiunto che la società non era a conoscenza di accuse specifiche dei suoi fornitori che usavano i lavoratori a domicilio, ma aveva iniziato un’indagine questa settimana.
Secondo Lucchetti, il fatto che molti marchi di lusso italiani esternalizzino la maggior parte della produzione, piuttosto che utilizzare le proprie fabbriche, ha creato uno status quo in cui lo sfruttamento può facilmente attivarsi, specialmente per coloro che non conoscono il sindacato. Una gran parte dei marchi assume un fornitore locale in una regione, che quindi negozierà i contratti con le fabbriche nell’area per loro conto.
I marchi danno le commissioni ai primi appaltatori a capo della catena di fornitura, che poi affidano le commesse a dei subfornitori, che a loro volta spostano parte della produzione in fabbriche più piccole sotto la pressione di tempi di consegna ridotti e prezzi ridotti”, ha detto Debora Lucchetti. “Ciò rende molto difficile che ci sia sufficiente trasparenza o responsabilità. Sappiamo che il lavoro a domicilio esiste. Ma è così nascosto che ci saranno marchi che non hanno idea che i loro ordini sono portati avanti da lavoratori irregolari al di fuori delle fabbriche contattate”.
Tuttavia, questi problemi sono tacitamente risaputi e probabilmente “alcuni marchi non possono non sapere che potrebbero essere complici del lavoro nero.”
Il “metodo salentino”
Sicuramente questo è il punto di vista di Eugenio Romano, un ex avvocato sindacalista che ha trascorso gli ultimi cinque anni in rappresentanza di Carla Ventura, proprietaria di una fabbrica in bancarotta, la Keope Srl (già CRI), nella causa a Tod’s ed Euroshoes, una società che Tod’s utilizza come fornitore principale per la produzione di calzature in Puglia.
Inizialmente, nel 2011, la signora Ventura ha iniziato un’azione legale contro Euroshoes, affermando che il ritardo di pagamenti consistenti, le riduzioni delle tariffe per gli ordini e le fatture in sospeso rendevano impossibile mantenere la fabbrica e pagare ai suoi lavoratori il salario. Una corte locale si è pronunciata a suo favore e ha ordinato a Euroshoes di pagare i debiti, come, dopo aver fatto appello senza successo, l’azienda ha fatto.
Gli ordini si sono prosciugati sulla scia di tali procedimenti giudiziari. Alla fine, nel 2014, Keope andò in bancarotta. Ora, in un secondo processo, che si è protratto per anni senza una sentenza significativa, la signora Ventura ha portato un’altra azione contro Euroshoes e Tod’s, che avrebbe avuto conoscenza diretta delle pratiche commerciali illecite di Euroshoes. (Tod’s ha detto che non ha avuto alcun ruolo né ha avuto conoscenza delle questioni contrattuali di Euroshoes con Keope. Un avvocato di Euroshoes ha rifiutato di commentare per questo articolo.)
“Parte del problema qui è che i dipendenti accettano di rinunciare ai loro diritti per lavorare”, ha detto Romano dal suo ufficio nella città di Casarano, prima della prossima udienza, prevista per il 26 settembre.
Ha parlato del “metodo Salento”, una frase locale ben nota che significa essenzialmente: “Sii flessibile, usa i tuoi metodi, fai come sai.”
La zona del Salento ha un alto tasso di disoccupazione, che rende vulnerabile la sua forza lavoro. E anche se i marchi non suggerirebbero mai ufficialmente di sfruttare i dipendenti, alcuni proprietari di fabbriche hanno detto al signor Romano che esiste un codice di condotta implicito che rende lecite pratiche come sottopagare i dipendenti e pagarli per lavorare da casa.
Il Salento è stato a lungo una zona di terzisti per marchi di lusso come Gucci, Prada, Salvatore Ferragamo e Tod’s. Nel 2008, la signora Ventura ha stipulato un accordo esclusivo con Euroshoes per diventare un sub-fornitore di tomaie per calzature destinate a Tod’s.
Secondo la signora Ventura, Euroshoes è passata da pagamenti in ritardo a una riduzione inspiegabile dei prezzi per tomaia da € 13,48 a € 10,73, dal 2009 al 2012.
Poiché il contratto richiedeva l’esclusiva, Keope non potè sviluppare accordi di produzione con marchi concorrenti come Armani e Gucci, che avrebbero potuto bilanciare i libri e salvare l’azienda.
I costi di produzione non erano più coperti, e le promesse di un aumento del numero di ordini da Tod’s via Euroshoes non arrivarono mai, secondo i documenti legali depositati dalla signora Ventura.
Nel 2012, un anno dopo la citazione in giudizio per fatture non pagate da parte della signora Ventura, gli ordini da Tod’s via Euroshoes si sono interrotti del tutto. La signora Ventura ha detto che questo avrebbe portato Keope sulla strada della bancarotta, come infatti successe nel 2014.
Quando è stato chiesto un commento, una portavoce di Tod’s ha dichiarato:
“Keope ha intentato una causa contro uno dei nostri fornitori, Euroshoes. Tod’s non ha nulla a che fare con i fatti addotti nel caso e non ha mai avuto un rapporto commerciale diretto con Keope. Keope è un subappaltatore di Euroshoes, e Tod’s è completamente estraneo alla loro relazione “.
La dichiarazione diceva anche che Tod’s aveva pagato Euroshoes per tutte le somme fatturate in modo tempestivo e regolare, e non era responsabile se Euroshoes non aveva pagato un subappaltatore. Tod’s ha affermato che ha insistito affinché tutti i fornitori eseguissero i loro servizi in linea con la legge e che lo stesso standard fosse applicato ai subappaltatori.
“Tod’s si riserva il diritto di difendere la sua reputazione dal tentativo diffamatorio di Keope di coinvolgerlo in questioni che non riguardano Tod’s”, ha detto la portavoce.
Infatti, un rapporto di Abiti Puliti che includeva un’indagine di Il Tacco D’Italia, un giornale locale, sul caso della signora Ventura, ha rilevato che anche altre aziende della regione utilizzavano lavoro nero per produrre tomaie per compensi da 70 a 90 euro a coppia, il che significa che in 12 ore un lavoratore guadagnerebbe da 7 a 9 euro.
Lavoro “invisibile”
I lavori tessili domiciliari ad alta intensità di manodopera o che richiedono manodopera specializzata non sono nuovi in Italia. Ma molti osservatori del settore ritengono che la mancanza di un salario minimo nazionale stabilito dal governo abbia reso più facile per molti lavoratori a casa essere ancora sottopagati.
I salari sono generalmente negoziati per i lavoratori dai rappresentanti sindacali, che variano per settore e per categoria. Secondo lo Studio Rota Porta, una società italiana di consulenza sul lavoro, il salario minimo nel settore tessile dovrebbe aggirarsi intorno ai 7,08 euro all’ora, inferiore a quello di altri settori tra cui quello alimentare (8,70 euro), edile (8 euro) e finanziario (11,51 euro).
Ma i lavoratori che non sono membri dei sindacati operano al di fuori del sistema e sono facilmente sfruttati, fonte di frustrazione per molti rappresentanti sindacali.
“Sappiamo che in Puglia ci sono cucitrici che lavorano senza contratto da casa, ma nessuna di loro vuole avvicinarsi a noi per parlare delle loro condizioni, e il subappalto le mantiene in gran parte invisibili”, ha detto Pietro Fiorella, un rappresentante della CGIL.
Molte di loro sono in pensione, ha detto Fiorella, cercano un lavoro flessibile a part-time per occuparsi della famiglia oppure vogliono integrare le loro entrate, e hanno paura di perdere i soldi aggiuntivi. Mentre i tassi di disoccupazione in Puglia sono scesi recentemente al 19,5% nel primo trimestre del 2018 da quasi il 21,5% nello stesso periodo di un anno fa, i posti di lavoro rimangono difficili da trovare.
Un altro rappresentante sindacale, Giordano Fumarola, ha sottolineato un altro motivo per cui le retribuzioni di indumenti e tessuti in questo tratto dell’Italia meridionale sono rimaste così basse per così tanto tempo: la delocalizzazione della produzione in Asia e nell’Europa dell’Est negli ultimi due decenni, che ha intensificato la concorrenza locale per un minor numero di ordini e costretti proprietari di fabbrica a ridurre i prezzi.
Fumarola ha spiegato che negli ultimi anni alcune società di lusso hanno iniziato a riportare la produzione in Puglia, ma il potere è ancora saldamente nelle mani dei marchi, e i fornitori operano su margini risicatissimi. Era difficile resistere alla tentazione, per i terzisti, di utilizzare quindi subfornitori o lavoratori a domicilio o di risparmiare denaro con il lavoro nero.
A ciò si aggiungono un’antipatia di lunga data per la regolamentazione, alti tassi di disoccupazione e sistemi frammentati di tutela dell’occupazione. Inoltre, dalla metà degli anni ’90, l’occupazione irregolare è stata significativamente liberalizzata da successive riforme del mercato del lavoro e il risultato è un ulteriore isolamento per quelli che lavorano ai margini.
Le elezioni nazionali di marzo hanno portato al potere in Italia un nuovo governo populista e messo il potere nelle mani di due partiti – il Movimento Cinque Stelle e la Lega. Una proposta di legge mira a limitare i contratti di lavoro a breve termine e la delocalizzazione semplificando alcune regole fiscali. Per ora, tuttavia, la legislazione relativa a un salario minimo non sembra essere all’ordine del giorno.
In effetti, per le donne come la sarta non nominata di Santeramo in Colle, che sta lavorando a un altro soprabito al tavolo della sua cucina, una riforma di qualsiasi tipo sembra molto lontana.
Non che le dispiaccia davvero. Sarebbe devastata dal perdere questo reddito aggiuntivo, ha detto, e tutto sommato questo lavoro le ha permesso di trascorrere del tempo con i suoi figli.
“Cosa vuoi che ti dica?” mi disse con un sospiro, chiudendo gli occhi e sollevando i palmi delle mani. “È quello che è. Questa è l’Italia. ”